Ma il presidente Usa vuole impostare un nuovo welfare per gli Stati Uniti più “europeo” Economisti e storici hanno paragonato la crisi dell’economia e della finanza Usa attuale a quella della Grande Depressione. Le ricette, allora la dottrina della spesa pubblica di Keynes, oggi una direzione simile e incentrata sulla capacità di spesa e di battere moneta dell’autorità centrale, evidenziano i punti di contatto fra le due epoche. Eppure Obama sa che la sua situazione rispetto a quella di Franklin D. Roosevelt (alla Casa Bianca dal 1933) è diversa. Roosevelt arrivò al potere quando la spirale negativa aveva già toccato il fondo e i mercati avevano bruciato tutto quanto possibile. In fondo lo storico venerdì di Wall Street era stato un 29 ottobre del 1929, 4 anni prima. Roosevelt dovette programma, immaginare, pensare e foraggiare la ripresa. Sostenne la domanda ricorrendo alla spesa pubblica. Obama, al contrario, deve impedire che l’America sprofondi ulteriormente.
Il Washigton Post, giornale che certo non gli è ostile, gli ha rammentato in un editoriale molto dettagliato che la sua prima missione è salvare l’economia nazionale. Poi penserà alle grandi riforme, ai cambiamenti che ha sbandierato in campagna elettorale. E’ un richiamo molto preciso e puntuale. David Brooks, raffinato e ascoltato editorialista del New York Times, ha scritto che “tentando di fare tutto in una volta, rischia di non fare nulla”. Obama in questo primo mese però pare abbia scelto di muoversi ignorando questi suggerimenti. Secondo il presidente infatti la crisi offre l’opportunità di agire e riformare dalla testa ai piedi alcuni dei programmi federali più dispendiosi, mal funzionanti e squilibrati: sanità, istruzione, sistema pensionistico e in genere le politiche ambientali. Obama non ha proposto una finanziaria da oltre 3,5mila miliardi di dollari solo per dare ossigeno alle industrie, ai disoccupati, all’export; ma proprio rivedere ex novo il modo in cui l’America deve spendere i soldi pubblici. A fianco a un incremento della spesa pubblica, l’Amministrazione Obama conta di ridurre gli sprechi e di dimezzare il deficit federale (circa 2mila miliardi) entro il 2013. Il capo della Casa Bianca ritiene che il governo sia non solo l’àncora di salvezza in questo momento di crisi, ma sia l’unico volano in grado di trasformare la società Usa. Il suo è un ragionamento molto “europeo”. Noi abitanti del Vecchio Continente sappiamo bene cosa significhino parole come socialismo e socialdemocrazia. Il sistema di welfare State è un prodotto della nostra cultura, imbevuta di aiuto pubblico e Stato “presente”. Anche i governi più conservatori e più riluttanti a gettare il peso dello Stato nelle vicende dell’economia sono, secondo gli standard americani o anglosassoni, “di sinistra”. A noi potrà risultare risibile l’accusa che i conservatori Usa hanno mosso a Obama di essere un socialista. Ovviamente egli è tutt’altro che questo. Ma la sua visione dello Stato, la sua concezione che non solo la ripresa ma anche la costruzione di un nuovo modello americano si basi sul ruolo del governo federale come fosse un demiurgo contemporaneo è, agli occhi della stragrande maggioranza degli americani, una politica di sinistra. Non è un giudizio di valore, solo una constatazione. Il fatto che oggi nel Partito democratico l’ala liberal (quella più a sinistra, vicina ai sindacati, alle organizzazioni per i diritti civili, agli ambientalisti) goda di buona visibilità e potere, rende attuabile, almeno in linea di principio, il piano di Obama. Tuttavia spiegava un analista, Joe Loconte: “La finanziaria che Obama ha presentato a fine febbraio unitamente al piano di stimolo per l’economia da 787 miliardi di dollari sono digeribili dagli americani solo perché oggi la situazione economica è penosa. Ma mai in altri tempi un così massiccio ricorso alla spesa pubblica sarebbe stato approvato”. Non è casuale che solo 3 senatori repubblicani abbiamo approvato il piano di salvataggio dell’economia da 787 miliardi di dollari. Non è opposizione irresponsabile. E’ la rappresentazione dell’altra America, quella rappresentata, schematizzo volgarmente, da McCain più che dal ticket Nancy Pelosi-Obama. Quella che guarda con riluttanza e scetticismo l’ingerenza di Washington nelle vicende dell’economia reale e della vita di tutti i giorni. Quella che vuole poche regole e libertà legata alla responsabilità. Obama ha buon gioco (e ha ragione) quando dice che la finanza è crollata sotto i colpi dei suoi stessi attori che hanno creato fra derivati, hedge fund e altri strumenti finanziari, dei meccanismi così complessi che sono stati alla fine incapaci di autoregolarsi e di rispecchiare l’andamento dell’economia reale. Far “pulizia”, fissare nuove rigide regole a Wall Street è per Obama un’esigenza, politica, economica e persino etica. Su questo gli americani, anche molti conservatori, lo seguiranno. Sempre che il governo sappia fermarsi prima di diventare esso stesso soggetto economico. Il rischio che corre Obama sotto il pressing dell’ala liberal è proprio questo. Per anni gli Usa hanno vissuto in una situazione di deregulation, domani il mercato potrebbe soffocare al contrario per un eccesso di regole. Le cancellerie europee e i mercati mondiali tengono quotidianamente l’attenzione sulle scelte di Obama e sull’andamento di Wall Street. La globalizzazione, la cessione del debito pubblico (la Cina ha 1200 miliardi di dollari in obbligazioni Usa), il dibattito sul protezionismo sono temi che vanno oltre i confini nazionali, o continentali. La sensazione è però che l’America grazie al suo innato dinamismo sarà in grado di uscire dalla crisi più forte e solida di prima. Magari cambiata al suo interno, ma pur sempre leader. Una nazione un po’ più “a sinistra”, ma non certo secondo gli standard della vecchia e arrugginita Europa che balbetta, Gran Bretagna esclusa, dinanzi alla crisi. L’Unione europea pare ancora una volta spettatore dinanzi al disastro. Aggrappata alla sua Realpolitik della convenienza, delle alleanze sorde pur di ottenere un tornaconto. E’ come l’abitante della casa vicino al fiume in piena. Che anziché rafforzare gli argini e studiare soluzioni all’avanguardia, spera e prega che l’acqua devii da un’altra parte. In passato spesso è andata così. Ma domani? di Alberto Simoni già inviato di Avvenire negli Stati Uniti |