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Foto 2010
Scritto da Alberto Simoni* |
Giovedì 29 Novembre 2012 13:06 |
Sono passati appena quattro anni dalla notte di Grant Park, Barack Obama con la moglie Michelle e le due figlie sul palco di Chicago, milioni di americani ubriachi di gioia nelle strade delle metropoli, la sensazione di essere all’alba di un’era di speranza e di cambiamento dopo otto anni di Bush con il suo lascito di due guerre e la crisi economica peggiore dal ‘29. Oggi le intenzioni di Obama sono rimaste un sogno. La realtà ha narrato una storia differente. Chiunque abbia osservato, anche distrattamente, le ultime fasi della campagna elettorale americana e il suo epilogo, si sarà accorto che l’euforia ha lasciato il passo al sollievo e che la parola magica “change”, cambiamento, che allora frettolosamente inebriò giovani e meno giovani, è uno sbiadito ricordo. La vittoria sullo sfidante repubblicano, il grigio Mitt Romney, è stata infatti l’affermazione dello status quo. Altro che “change”, gli americani hanno scelto la vecchia via anziché sperimentarne una nuova (o almeno così la vendevano i repubblicani), preferendo all’agenda stracolma di tagli alle tasse e contrazione della spesa pubblica di Romney, quella delle tutele sociali e del prelievo fiscale ai super ricchi di Obama. Il voto del 6 novembre ci dice anche che l’America oggi è più lacerata di quanto lo era quattro anni fa. I due partiti si spartiscono i due rami del Congresso, Senato ai democratici, Camera ai repubblicani. E da qui dovrà passare Obama per vedere il suo budget approvato. In questa contrapposizione cosa c’è da aspettarsi dall’Obama bis? Come si muoverà il 44° presidente sullo scenario internazionale? Seguirà il percorso tracciato durante il primo mandato, sempre che variabili impreviste impongano temporanee inversioni di tendenza. E’ quanto accaduto infatti a metà novembre con la crisi Hamas-Israele. Un dossier, quello mediorientale, snobbato dalla Casa Bianca per anni è stato riaperto dagli uomini di Obama e rimesso in cima alle priorità. Quanto resterà lì? Abbastanza per costringere l’America a fare di più per allentare le tensioni e trovare un modus vivendi fra le parti, non tanto però da offuscare la vera priorità strategica Usa: ossia il Pacifico. Obama da tempo ha orientato la politica estera americana verso l’Estremo Oriente. La Cina è un competitor con il quale trovare punti di accordo ma anche con il quale misurarsi - in maniera netta e senza sconti - sul fronte della sicurezza e dell’influenza geostrategica. Se Pechino infatti ora ambisce a recitare un ruolo più forte sullo scacchiere internazionale, non sarà certo Washington a cedere il passo e a lasciare alla Cina il ruolo di prim’attore. Lo spostamento di priorità verso Oriente (già tentato da Bush prima che le stragi dell’11 settembre lo costringessero a dirottare energia e quattrini verso il Medio Oriente e la lotta al terrorismo) ha come conseguenza un ridimensionamento dell’Europa. La Casa Bianca guarda al nostro Continente con attenzione mista a preoccupazione. Se la crisi del 2008 si è generata al di là dell’Atlantico con la bolla dei mutui subprime, è ora l’Europa che fatica a scrollarsi di dosso le incrostazioni che ne limitano la produttività ed è qui che l’economia zoppica, la tenuta dei conti pubblici è incerta e la disoccupazione invece una triste costante. A Washington preme avere un’Europa stabile sotto il profilo finanziario ed economico e che sia in grado di assumersi responsabilità sugli scenari potenzialmente esplosivi. Come accaduto in Libia dove Francia e Regno Unito accesero per primi i motori (pur senza rappresentare la Ue). Un tracollo europeo o di uno dei suoi Stati membri i cui conti pubblici hanno il segno meno, nuocerebbe alla ripresa, lenta ma evidente, del mercato statunitense. In un’epoca di transazioni finanziarie e di relazioni commerciali globali, di parcellizzazione e diffusione in ogni angolo di mutui, prestiti e obbligazioni, basta un soffio a Tokyo perché Bruxelles senta vento e Washington tempesta. E viceversa. L’interdipendenza, pur fra attori di grandezza e peso politico-economico differente, fa sì che i problemi che Obama ha con i repubblicani a Washington sul budget e del fiscal cliff abbiano ripercussioni anche su di noi. La parola d’ordine a Washington è stabilità. E’ in quest’ottica che al Dipartimento di Stato e alla Casa Bianca non spiacerebbe che il premier Monti prolungasse la sua permanenza a Palazzo Chigi. Piaccia o no la sua ricetta, il Professore ha ridato all’Italia credibilità internazionale e rinnovata fiducia. Un anno fa Obama vide il premier alla Casa Bianca dandogli un attestato di stima e garantendo il supporto americano alle sue scelte. Non è certo un mistero quindi se oggi gli americani (e non solo loro) temono che un’Italia senza Monti potrebbe deragliare dai binari del risanamento e della stabilità finanziaria che tanto è funzionale anche ai disegni strategici di Washington. * Caposervizio Redazione Esteri “LA STAMPA” |