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Il governo e gli industriali si scambiano le colpe della crisi
Scritto da Marco Zulberti   
Domenica 12 Giugno 2011 20:34

Lo scambio dialettico tra il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e la Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia in occasione dell’assise degli industriali a Bergamo, ha messo in luce la scarsità di argomenti e di proposte in cui si dibatte la classe dirigente del paese, di fronte alla crisi finanziaria che attanaglia interi settori dell’economia. 

Se infatti da una parte la lista delle richieste di Confindustria appare appiattita sui soliti slogan come liberalizzazioni, costo del lavoro, tassazione, efficienza, ricerca, formazione, dall’altra il governo giustamente non è più in grado finanziariamente di avviare un nuovo piano di spesa pubblica che alimenti i mille rivoli particolari delle lobby. Qualità della spesa pubblica, nessuna uscita senza tagli e l’obbligo per legge, come in Germania, del rispetto del conto economico, sono infatti i prossimi target del ministro dell’Economia Giulio Tremonti.

Tutte le attenzioni si rivolgono allora alla forza dell’export tedesco e all’impasse di quello italiano andando ancora una volta a toccare il doloroso tasto dell’ICE, il costosissimo Istituto del Commercio Estero che è diventato solo un doppione delle ambasciate, senza alcuna ricaduta sulla economia italiana. Proprio la proposta di privatizzarlo, in vista di un miglioramento dell’export mostra tutti questi limiti e la miopia in cui il localismo, sulla scia delle spinte leghiste, ha fatto cadere sia la cultura economica del governo che interi segmenti degli industriali italiani. I casi Edison, Alitalia, Parmalat, Bulgari testimoniano proprio la sindrome provincialistica in cui è caduta la visione economica della nostra classe dirigente che radica i suoi problemi nel processo di svendita degli asset IRI avvenuto negli anni Novanta, quando si sono privatizzati i servizi redditizi, telefonia, autostrade, energia, e invece smontate l’industria chimica e alimentare in occasione del crack Montedison-Feruzzi, quella metallurgica in quanto giudicata strategicamente superata, con vendite alla Thyssen e alla Lucchini, e quella automobilistica, esternalizzata dalla FIAT, in America Latina e paesi dell’Est. La fiducia che una privatizzazione dell’ICE risolva questi problemi appare superficiale e chimerica.

Ci si deve infatti chiedere perché oggi l’export della Germania corre? Perché la Francia getta le reti del mercato sulle società del lusso e del settore alimentare? Le due economie ispirate al modello franco-renano in cui lo stato ha ancora un ruolo di arbitro gestendo energia e trasporti si trovano, in questo momento di crisi del liberismo finanziario, avvantaggiate anche nei confronti del capitalismo più spinto. In un momento in cui anche l’export cinese frena, infatti la Germania grazie ai suoi conglomerati industriali che sono dei veri e propri marchi internazionali contraddistinti da logo e brand come Bayer, Basf, Siemens, Schneider, Volkswagen, Porsche, e la Francia con la Danone, Carrefour, L’Oreal, Luis Vitton, stanno penetrando grazie a questa visibilità i mercati di tutto il mondo. Come sottolineava dieci anni fa la giornalista canadese Naomi Klein in No-Logo, oggi l’immagine è tutto e questo non permette alla piccolissima rete di artigiani e piccole imprese italiane di avere accesso ai mercati internazionali se non in settori di nicchia, che poi diventano esemplificativi di un successo individuale che è anche frutto della stessa debolezza del sistema. In pratica fino a che c’era la Lira la piccola impresa italiana sapeva superare le difficoltà economiche interne facendo leva sulla coesione tra imprenditore e team dei dipendenti e produzione. Oggi questo non basta, perché si deve diventare visibili a livello internazionale e questa possibilità se la possono permettere solo i grandi conglomerati che in Italia non esistono più se non nel caso di Fiat, Eni, Enel e nel campo finanziario con Unicredit. E allora le proposte del governo e della Confidunstria devono orientarsi verso ampi progetti fiscali e di capitalizzazione finanziaria che premino progetti di razionalizzazione industriale nel numero delle imprese, raggruppandole per settore chimica, alimentare, industriale, costruzioni, riutilizzando i molti marchi che comunque l’industria italiana continua ad avere. Negli Stati Uniti i fagioli Campbell sono quotati in borsa da oltre settant’anni fino a diventare un’icona grazie a Andy Wharol. Chi non ricorda la Lanerossi oggi Marzotto? Questa è la lezione che arriva dalla Francia e dalla Germania, e a questo progetto devono orientarsi le due compagini governativa e industriale, che mostrano di cadere sempre più vittime di un localismo che non le spinge oltre il sabato sera, passato nelle balere di provincia.