 Dal congresso del Pd a Italia Futura Vecchi partiti e nuove idee «Trent’anni fa speravo con altri di poter imprimere una svolta al Pci. Poi ci ho provato con Occhetto, quindi con il partito dei sindaci, con l’Asinello di Prodi, con la Margherita e infine con il Pd.». Queste le parole sconsolate del sindaco di Venezia, il filosofo Massimo Cacciari commentando l’epilogo del congresso del Partito Democratico che ha visto in serie il trionfo di Pieluigi Bersani, la sconfitta franceschiniana, l’uscita dal partito di Francesco Rutelli con alcuni centristi e ha lasciato in molti la sensazione palpabile che da tutto questo processo sia uscita solo un’ennesima riproposizione del Pds, una sorta di Ds versione 2009.
Due i fattori che portano a questa conclusione. Il primo è proprio il distacco della componente centrista, che per alcuni ha voluto dire andarsene, per altri significa ancora restare, ma con un malcelato maldipancia. La seconda è la leadership di Bersani, fortemente connotato a sinistra e la presenza imperante (ed inquietante) di Massimo D’Alema, che in tutti questi anni – ora in primo piano, ora sottotraccia come una corrente carsica – non ha mai smesso di essere il deus ex machina prima del Pds, poi dei Ds ed ora del Pd. Come dice Cacciari, il partito sarà “ la Cosa 2, 3 o 4 di D’Alema”. Ma, forse, la cosa più drammatica di tutte è che il giorno dopo la sua investitura il nuovo segretario Bersani si affaccendava di già a ricucire i rapporti coi vari Diliberto, Pecoraro Scanio, Bertinotti, Vendola, Rizzo e compagnia, i famosi “cespugli” di ultrasinistra che il “nuovo corso” del Pd veltroniano aveva ufficialmente accantonato alla ricerca della sua “vocazione maggioritaria”. La realtà è che il progetto era nato male sin dall’inizio o – come dice Rutelli – non era “mai nato” e la dimostrazione più evidente delle difficoltà del Pd nel far convivere le sue grandi due anime è stata quella della soffertissima scelta del gruppo di appartenenza nel parlamento europeo fra Socialdemocratici e Popolari. Attenzione, quella che può sembrare una questione politologica di lana caprina è in verità la causa prima di tutti i mali del maggiore partito di opposizione. Infatti è da qui che arrivano i grandi distinguo all’interno del Pd e il quesito di fondo ossia: è possibile semplificare talmente la politica italiana fino a mettere nello stesso calderone la tradizione cattolica-popolare ex-Dc con quella socialista ex- Pci? La risposta sinora non può certo essere positiva. L’operazione si è rivelata più ardua del previsto e il Pd, salpato con l’euforia kennediana di Veltroni per essere partito di maggioranza (e puntare al 40%) ha visto via via ridursi i suoi consensi fino ad indicare alle scorse europee il “limite di sopravvivenza fisiologica” al 27%, ed essere ora, nei sondaggi, attorno al 26%.
Dal canto suo Rutelli è partito per altri lidi, verso un’avventura dai contorni ancora incerti. Certo la sfida, quella di creare un’alternativa moderata e “civica” a Pdl e Pd è molto affascinante, ma anche molto rischiosa. Certo, potrebbe funzionare se riuscisse a coagulare attorno a sé le forze vive della società a livello italiano (ma anche e soprattutto a livello locale) che ora si sentono costrette dal bipolarismo un po’ forzoso tra centrodestra e centrosinistra. E in questa direzione va la discesa in campo di Lorenzo Dellai, che vede in questo futuro soggetto politico moderato e liberale l’approdo nazionale della sua Unione per il Trentino. Un soggetto che punta a raccogliere i centristi sotto l’ombrello della “terza via” e ha prospettive soprattutto nell’ottica del dopo-Berlusconi. Un discorso da fare con l’Udc, certamente, ed anche con Italia Futura, l’associazione fondata da Luca Cordero di Montezemolo, senza scordare il cosiddetto “tavolo dei volonterosi” bipartisan di Tabacci e Pezzotta e i tanti movimenti e partiti regionali che non si sentono rappresentati da Pd e Pdl. Possibili leader? Lo stesso Montezemolo, Pierferdinando Casini, il governatore della Banca d’Italia Draghi. Le cose da fare? Uscire dalla logica del referendum continuo pro o contro Berlusconi, aprire la politica alle forze fresche dell’imprenditoria, mettere l’occupazione tra le priorità, buttare giù cinque o sei idee forti, concrete ed attuabili per il futuro prossimo dell’Italia e cercare appoggi e convergenze con il mondo dell’economia e i sindacati più moderati. Infine le cose da evitare. Calarsi troppo nella parte del partito di centro, moderato a tutti i costi, soffocando le idee forti e innovative di cui c’è invece un grande bisogno. Riproporre la politica dei “due forni” in chiave moderna e le estenuanti contrattazioni del “do ut des” (che pure fanno parte della politica) che sfiancarono anche la vecchia Dc. Non si andrebbe veramente da nessuna parte. |