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Occorre una nuova forma di impresa per fare breccia sui mercati emergenti
Scritto da Marco Zulberti   
Lunedì 06 Maggio 2013 07:46

Nell’ambito della dialettica tra imprese, classe politica e istituti bancari, si sta formando una nuova coscienza economica che spinge anche l’imprenditore, più periferico e individualista, a comprendere l’importanza della forma dell’impresa, del numero di addetti, della capitalizzazione. Queste problematiche emergono quando la scarsità del mercato interno, e la qualità  del proprio prodotto, spinge il singolo imprenditore a prenotare un aereo e volare nei mercati emergenti che vanno dalla Russia, alla Cina o al Brasile. 

Si è parlato anche di questo nel recente incontro organizzato a Tione il 23 aprile nella casa della Comunità delle Giudicarie con i rappresentati economici delle Giudicarie e un’ampia platea di imprenditori e artigiani alla presenza di alcuni rappresentanti del mondo del credito.

La doccia fredda è abbastanza evidente e il ritorno alla realtà abbastanza brutale. Se i mercati emergenti di Russia, Cina, India e Brasile offrono opportunità senza fine alla qualità dei nostri prodotti, poi si scopre che il trasporto, i dazi doganali imposti alle importazioni, le tassazioni italiane e quelle locali, azzerano tutto il guadagno trasformandolo in una perdita. L’imprenditore torna scoraggiato e senza istituzioni che possano risolvergli i problemi.

E qui sorgono i problemi tipicamente italiani sulla forma impresa, che oltre gli otto dipendenti e i quindici perde tutte quelle caratteristiche di leggerezza e produttività che invece richiede oggi il mercato globale. Questo anche in termini di marketing e capitalizzazione.

Fino a che gli artigiani e le imprese lavoravano per il mercato interno, trentino e italiano, che era in espansione per l’intervento pubblico, “piccolo era bello”, e il miracolo italiano si identificava con questa dimensione dell’impresa.

Invece con una economia in forte rallentamento per il peso generalizzato del debito pubblico la ricerca dei nuovi mercati per questa dimensione diventa un fortissimo handicap. Sono famosi i viaggi in aereo verso la Cina di centinaia di imprenditori italiani sulla scia dei politici, tornati poi a mani vuote. In Cina avevano già trovato i mercati in mano alle reti commerciali della Wal Mart americana, della British Petroleum inglese, della Siemens tedesca o della francese Auchan, che nel loro sguardo “ex-coloniale”, non vanno romanticamente in questi paesi come ad una gita di classe, ma inviano i lori commerciali, non più di due alla volta, che sotto questi grandi marchi conosciuti a livello internazionale, aprono i loro cataloghi che contengono tutti i prodotti delle proprie filiere alimentare, industriale, chimica, che sia.

In Germania ad esempio vi sono conglomerati economico industriali come la Siemens che producono ogni tipo di prodotto, e nel suo catalogo contiene i prodotti dei mille piccoli industriali e artigiani tedeschi, dall’elettro valvola al computer industriale, dalla colla ai coloranti. Non deve essere il singolo imprenditore che produce quel prodotto ad andare in Cina, ma il commerciale della Siemens piazza il suo prodotto, che rispetta così anche un indice di qualità. Inoltre questi conglomerati come la Wurth o la Schneider hanno anche una forza di unire tutta l’industria tedesca sotto questi marchi e di trattare poi con gli istituti di credito anche la capitalizzazione. E’ più facile ottenere un finanziamento sotto il cappello della Siemens che non come singolo piccolo artigiano che produce ottimi stampi per la plastica ma non ha la forza nè finanziaria ne commerciale.

Il fallimento del commercio estero italiano rispetto a queste grandi realtà industriali, a questi grandi conglomeratici è sotto gli occhi di tutti. Se i campanili non si mettono a suonare tutti insieme, i problemi dell’economia trentina e italiana non si risolvono.

Se non si passa alla costruzione di questi conglomerati in cui si coniugano la filiera corta, con una nuova forma dell’impresa, più agile e efficiente, e la forza commerciale di un marchio, come potrebbe essere Trentino Sviluppo, che per ora rimane un’istituzione più di indirizzo che da vero conglomerato, ogni sguardo oltre le nostre montagne può appare fragile e inefficace.