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Traduzioni e Comunicazione

Tempi di vacche magre
Scritto da Adelino Amistadi   
Domenica 08 Novembre 2009 06:53

Mucche nei pascoli giudicariesi
Costi troppo elevati, regolamenti europei e sbagli di 20 anni fa hanno messo in crisi il settore
Tempi di vacche magre
La zootecnia giudicariese soffre, ma va rilanciata. Quali soluzioni?

Con ottobre finisce tradizionalmente l’annata agricola, con S. Martino giunge l’ora di fare i conti, l’inventario, ed i progetti per il futuro. La tendenza del contadino è da sempre quella di lamentare le cose che non vanno piuttosto di godere della cose che invece funzionano, ma negli  ultimi anni purtroppo le loro lagnanze e soprattutto degli allevatori sono del tutto condivisibili e vediamo il perché.


Cominciamo col dire che agricoltura in Giudicarie è soprattutto zootecnia, allevamento, tanto per capirci, produzione di latte in particolare. Le altre attività agricole si limitano alla produzione di mais da farina a Storo e di patate nel Bleggio-Lomaso che hanno raggiunto notevoli risultati economici, ed alcune coltivazioni secondarie sparse un po’ ovunque non significative nel bilancio agricolo complessivo del nostro comprensorio. La zootecnia rimane dunque l’attività principale sia per il numero degli addetti che la praticano, sia per il numero di aziende e per le famiglie coinvolte, e, non ultimo, per il vasto territorio interessato a questa attività. Storicamente la zootecnia è stata l’attività primaria della nostra gente fino al dopoguerra, solo negli anni ’60 s’è iniziata la diversificazione lavorativa con i grandi lavori idroelettrici e l’inizio dell’industrializzazione. Negli anni successivi il boom del turismo ha fatto il resto, furono in molti a cambiare mestiere e l’abbandono dell’attività agricola cominciò a manifestarsi come fenomeno inarrestabile.
La Provincia corse ai ripari, conscia dell’importanza del settore, assistendo gli allevatori con consistenti interventi finanziari, e la Cooperazione fece la sua parte organizzando ovunque forme cooperative per ottimizzare lavoro e risultati economici, i caseifici sociali furono eccezionali punti di riferimento per la produzione e lavorazione del latte e per la commercializzazione dei prodotti. Le cose sembrarono funzionare, seppur con limiti non sempre accettabili alla qualità della vita degli allevatori, ma la passione e l’amore per la propria storia ed il proprio territorio lasciavano sperare che, se debitamente sostenuti dalla Provincia, la attività zootecnica in Giudicarie sarebbe potuta sopravvivere.
Fu con l’avvento del Mercato Comune Europeo, dell’Europa quindi, che le cose precipitarono e da allora non si sono più riprese. I francesi, così gli olandesi, i tedeschi hanno allora riversato sul mercato europeo le loro enormi produzioni lattiero-casearie, mettendo fuori combattimento tutta la zootecnia italiana ed, ovviamente, ancor più la nostra, gravata da costi di produzione incompatibili con il resto dell’Europa, legati alle difficoltà orografiche del nostro territorio. L’Europa non riconobbe mai, né l’ha fatto ad oggi, la specialità della montagna, ha considerato il vecchio continente, dal punto di vista agricolo, come una grande unica pianura e salvo qualche intervento, quasi di tipo umanitario, non fece differenza fra le pianure olandesi e i “grebeni” della Val d’Aosta e del Trentino.
Fu allora che la Provincia, ahi megalomane!, fece alcuni errori strategici di cui ancora oggi ne paghiamo le conseguenze. Il primo ed il più grave fu quello di incentivare la costruzione di grandi stalle per la concentrazione dell’allevamento, cercando così di rincorrere con le stesse armi la superiorità produttiva della pianure europee. Le conseguenze furono quelle di favorire la chiusura di  una miriade di piccole aziende ormai fuori mercato e puntare tutto sulla grande produzione e l’abbassamento dei costi. Le nuove aziende impostate sui grandi numeri cambiarono il modo di fare zootecnia in tutte le Giudicarie, cambiò l’alimentazione fin allora basata sul fieno dei nostri prati e sull’erba estiva dei nostri pascoli, le stalle vennero accompagnate da grandi silos, patetici campanili di una agricoltura che non era più quella. Cambiò il modo di lavorare la campagna, e si limitò lo sfalcio del fieno alle sole zone lavorabili meccanicamente, abbandonando al rimboschimento selvaggio le zone più critiche e meno adatte al lavoro delle macchine. D’altronde il fieno non era più un alimento base, e conveniva comprarlo piuttosto che perdere tempo nel produrlo in azienda. Cambiarono perfino le razze del bestiame, con la coraggiosa e meritoria eccezione della Val Rendena, si puntò su bestiame altamente produttivo e su una alimentazione stanziale delle lattifere per cui vennero abbandonati i pascoli in alta quota con il conseguente degrado sia delle malghe che dei pascoli adiacenti, cambiarono perfino gli odori delle stalle, il sano puzzo del letame s’era tramutato in uno sgradevolissimo fetore chimico-organico. La stessa cooperazione dovette adeguarsi unificando i caseifici sparsi sul territorio per affrontare il mercato con le necessarie economie di scala. Furono soppressi i caseifici di Storo e di Roncone e di Pinzolo per ritrovarsi nell’unico polo lattiero-caseario di Fiavè,una delle zone più significative della nuova strategia zootecnica provinciale. Non fu un cambiamento da poco e ci furono notevoli implicazioni civili e sociali sull’intero nostro comprensorio.
Ma i risultati non ci furono, i conti sperati non tornarono, la speranza di poter competere con i costi di produzione europei si rivelò una bufala drammatica, né ebbero maggior successo i ragionamenti sulla genuinità dei nostri prodotti e sulle produzioni di nicchia che quando se ne parla fanno sempre un certo effetto, ma che poi all’atto pratico si rivelano sempre inefficaci. Così l’allevamento delle vacche da latte è entrato in un lungo tunnel di profonda crisi, quasi totale l’abbandono dei giovani imprenditori, invecchiamento dei titolari d’azienda, scarso il commercio del bestiame ed ancor più scarso il commercio dei prodotti. Ne sono l’emblema più significativo le vicissitudini del Caseificio di Fiavè che ha occupato le pagine dei giornali e che ancora non si sono felicemente concluse, anche se timidi segnali di ripresa sembrano prospettarsi all’orizzonte. Quella vicenda, gestita male, con grande ricaduta negativa sui conti aziendali dei produttori di latte, rappresenta oggi lo specchio preciso della situazione zootecnica giudicariese, nessuno sa come risollevarne le sorti e nessuno sembra nutrire grandi speranze per il futuro.
L’Ass. Provinciale Mellarini s’è preso a carico la situazione e sta pensando ad una diversa programmazione a livello provinciale, specifica per l’allevamento da latte che condivido: l’obbiettivo, in montagna, non può essere quello di fare industria, quindi basta con le stalle giganti, ma aziende sostenibili, di media dimensione, a gestione famigliare, sparse sul territorio per garantirne il controllo e la coltivazione, sostegni consistenti che vadano oltre le miserie dello “sfalcio europeo”, garanzia di servizi efficienti, ripresa dell’alpeggio e dell’attività prativa, produzione casearia attenta ai costi ed alla commercializzazione. Tutte belle cose, anzi necessarie, che potranno riportare alla terra giovani appassionati e mantenere l’agricoltura nelle nostre valli con immediato beneficio del territorio e dell’economia locale, ma vorrei suggerire qualche altro strumento. Ormai l’allevatore d’alta montagna ed in particolare in alcune zone delle nostre Giudicarie ha una funzione che va oltre l’accudire il proprio bestiame, egli è ormai, per certi versi, un custode dei prati e dei pascoli, un manutentore, una sentinella contro il degrado, uomini quindi indispensabili al mantenimento dell’ambiente, per evitare la riforestazione selvaggia del nostro territorio, la sua desertificazione, l’abbandono progressivo degli ambiti rurali con gravissime perdite sociali e culturali oltre che alienarsi ogni potenziale attrazione turistica delle nostre valli.
Allora che fare? La ricetta è semplice e neanche tanto costosa, risparmiamo sui contributi indiscriminati su macchinari e attrezzature e manufatti, spesse volte superflui (c’è gente che cambia il trattore ogni due anni!), e garantiamo ai giovani imprenditori agricoli, capofamiglia, debitamente selezionati per evitare speculazioni, un salario base indipendentemente dall’attività di stalla (1000-1200 euro), impegnandoli, sia chiaro, al lavoro controllato di manutenzione e di sfalcio anche nei prati di media e alta montagna, una specie di “progettone” agricolo, garantiremo ai giovani contadini una vita dignitosa e la permanenza sulla terra e, più di tutto, garantiremmo nel tempo la conservazione del nostro territorio con beneficio non solo loro, ma  dell’intera comunità giudicariese.
Della tante spese che la Provincia fa, talvolta poco redditizie, questa potrebbe essere l’uovo di colombo per salvare una situazione ambientale che si va drammatizzando e per recuperare l’attività zootecnica altrimenti destinata a scomparire. Non vorrei che fosse troppo tardi sia per l’ambiente, sia per gli allevatori, auguri!